Con il passaggio in zona bianca anche in Campania sono venute meno molte delle restrizioni che nei mesi passati ci hanno privato della possibilità di aver una vita sociale e relazionale normale. Siamo tornati ad uscire liberamente, e se le varianti del virus ce lo consentiranno torneremo anche a stare gli uni vicini agli altri, laddove possibile in base alle immunità diversamente acquisite, a toccarci, a sentire reciprocamente l’odore dei nostri corpi.

Uno studio recentissimo su un campione significativo della popolazione svolto dalle facoltà di Psicologia e Sociologia dell’Università di Roma Tor Vergata, ha dimostrato quanto il ritorno alle vecchie e sane abitudini di relazione non sia un evento ovvio e scontato, ovvero quanto si sia instaurato nella mente di molte persone, in questo periodo di pandemia, una pericolosa attitudine ad evitare in ogni caso la socialità, quasi che quest’ultima fosse in sé stessa un pericoloso veicolo di contagio, al di là dell’emergenza legata al covid 19.

Si tratta di una questione molto seria. La paura generata dai morti, dalla sofferenza, dalla crisi economica legata alle restrizioni, è diventata per molte, troppe persone, un sentimento abituale, quotidiano, irrinunciabile. E di questa paura sarà difficile liberarsi anche quando, prima o poi, sarà finita l’emergenza legata al virus. Ci sarà bisogno di un lavoro costante di recupero delle energie vitali della popolazione, ed in questo percorso i più giovani, nonostante i danni subiti dall’ingabbiamento domestico della loro voglia di vivere, avranno un ruolo fondamentale per le famiglie e per la società nel suo complesso.

La crisi economica in atto, non ancora evidente in tutta la sua drammaticità solo grazie ai provvedimenti di contenimento adottati dai diversi governi che si sono succeduti, non è l’unica grave conseguenza della sospensione della vita sociale, benché essa sia quella più preoccupante dal punto di vista immediato; per averne conferma basta rileggere il dibattito esploso tra le forze politiche e le parti sociali sulla proroga del blocco dei licenziamenti, in esso ci sono tutti gli elementi per sentire il ticchettio della bomba pronta ad esplodere nel profondo della nostra società.

Una bomba che ha già prodotto danni ulteriori i cui effetti vedremo nel tempo.

Lo Smart Working ad esempio, resosi necessario nei mesi di massima crisi sanitaria, ha dimostrato sul campo tutti i limiti e la discutibilità di una organizzazione del lavoro che viaggia sempre più speditamente verso l’atomizzazione degli individui. Senza neanche voler entrare nello specifico del risparmio da parte delle imprese ( locali, strutture, energia elettrica, pasti ) e del trasferimento di tali voci sul budget delle famiglie, ci sembra evidente che la trasformazione dell’abitazione in ufficio costituisca un pericoloso sfaldamento del muro divisorio fra vita privata e vita lavorativa,  uno sfaldamento su cui occorre fare una riflessione, senza dogmi e senza partigianerie.

La stessa capacità propulsiva del movimento dei lavoratori, messa già profondamente a repentaglio dalla crisi profonda delle organizzazioni rappresentative, trova nello Smart Working la discesa più veloce verso la definitiva cancellazione delle istanze delle masse lavoratrici dai processi reali di trasformazione dello stato di cose presenti.

Se l’individualizzazione esasperata costituiva fino a poco tempo fa la caratteristica principale di aziende dalle dimensioni molto ridotte e in generale del lavoro nero e precario, con il confinamento in ambito domestico di grandi masse di lavoratori si corre il rischio di rendere definitivamente subalterno il mondo del lavoro, tutto il mondo del lavoro, rispetto alle capacità incisive del resto dei soggetti agenti a vario titolo nella società. Su questa questione, lo ripetiamo, occorrerà riflettere a lungo ed attentamente, soprattutto poiché da molti ed influenti settori del mondo economico arrivano inequivocabili spinte verso la stabilizzazione di una modalità di gestione delle risorse umane nata in fase emergenziale.

Su un piano più complessivo l’impossibilità di vivere spazi comuni ha dato un duro colpo anche a quel mondo associativo, politico e sindacale che costituisce l’ossatura già traballante della nostra democrazia.

Partiti, associazioni, sindacati, già in crisi profonda da almeno quarant’anni, hanno visto un ulteriore passo indietro sul terreno della partecipazione e del protagonismo dei cittadini.

Anche noi siamo stati costretti ad utilizzare strumenti informatici per mantenere in vita la nostra rete di collegamento con i luoghi di lavoro, con le nostre rappresentanze, con i giovani che si sono da poco avvicinati al sindacato.

Non è stato facile ma abbiamo fatto tutto quanto era possibile. Non crediamo che altre sigle sindacali, anche più ricche e meglio organizzate di noi, abbiano organizzato negli ultimi mesi addirittura un percorso di formazione per dirigenti sindacali, a cui hanno aderito in tanti e che produrrà, ne siamo convinti, molti frutti utili alla costruzione del sindacato del futuro.

E’ stata una lunga e difficile traversata nel deserto, e ci auguriamo che le sabbie e la solitudine siano definitivamente alle nostre spalle. Se tutto procederà per il meglio potremo tornare stabilmente a vederci, a guardarci negli occhi, a sentire l’odore dei nostri corpi.

Solo sentendo la vicinanza fisica dei nostri compagni di lotta potremo continuare le nostre battaglie riappropriandoci della nostra umanità, quella umanità che è una qualità fondamentale ed irrinunciabile di ogni dirigente sindacale, di ogni lavoratore, di ogni donna e di ogni uomo.